Le interviste a tre donne sopravvissute, Liliana Segre, Goti Bauer e Giuliana Tedeschi, per capire il significato di essere donna nella Shoah.
E’ stato il tema affrontato lunedì 27 gennaio nell’80° anniversario della Giornata della Memoria alla secondaria di I grado “Dante Alighieri” di Macerata dove alcuni alunni ed alunne hanno avuto la possibilità di incontrare e confrontarsi con Annalisa Cegna, docente di Storia all’Università di Macerata e direttrice dell’Istituto Storico della città. A raccontare questa esperienza è la classe 3D.
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L’incontro è stato occasione per riflettere sul libro “Come rane d’Inverno” di Daniela Padoan ed è inserito nelle attività organizzate dal Comune per il Giorno della memoria.
In particolare il testo, attraverso le interviste cerca di capire il significato di essere donna nella Shoah. Si tratta di un aspetto a lungo trascurato, un po’ perché le donne hanno raccontato solo se qualcuno era disposto ad ascoltarle (il dolore del ricordo, dice Giuliana Tedeschi, è troppo forte per essere regalato ad un ascoltatore distratto), ed un po’ perché sulle donne gravava un’incredulità maggiore. Dice Liliana Segre che qualcuno sospettava che una donna avesse stretto legami con i tedeschi per cavarsela. In altri casi, come racconta Elisa Springer, erano i familiari stessi che chiedevano il silenzio perché le sofferenze passate erano «inutili e dannose all’immagine della famiglia». Eppure per le donne è stato tutto più difficile: «per le donne è stato tutto uno strappo continuo, un attacco alla stessa femminilità. I capelli, la nudità, l’immediata solitudine e, soprattutto il distacco dai figli, dai genitori, dai familiari». E poi le camere a gas ed i forni crematori, a Birkenau, stavano proprio davanti alle baracche del campo femminile; impossibile non sentirne l’odore e non vederne i fumi continui. Da qui il titolo del libro di Padoan “Come rane d’Inverno”.
«Mi ha intristito pensare che le donne erano quasi invisibili come rane in letargo e immerse nel fango e nella melma come rane nelle pozzanghere. Questa differenza con gli uomini mi sembra molto ingiusta e mi fa arrabbiare» ha detto Matilde nel suo intervento in classe. Mentre Filippo è rimasto colpito dall’assoluta imprevedibilità per i deportati di salvarsi o di essere condannati alle camere a gas: l’arbitrio totale nel pianificazione logica dello sterminio. Una condizione di angoscia continua che si aggiungeva alle atrocità subite. Un luogo pieno di contraddizioni, incomprensibile ad una mente umana sana.
«Il lavoro stesso, la capacità di lavorare – dice Asia – se da una parte rappresentava il solo appiglio per la sopravvivenza, dall’altra era un mezzo di persecuzione e di sfinimento».
«I civili tedeschi – aggiungono Sara ed Azzurra – non potevano non sapere quello che accadeva in quei campi; è terribile pensare che, come racconta Goti Bauer, “I civili tedeschi si rivolgevano al Lager, o a enti preposti a fare da tramite, perché potevano ottenere ad esempio una carrozzina per il loro bambino, facendo una semplice domanda. Si chiamava Canada la baracca dove avveniva lo smistamento dei beni”».
Dal confronto e dalla lettura di alcune pagine del libro, i ragazzi e le ragazze hanno capito che dal lager non si esce mai, che quel cancello, quel filo spinato, quei muri rimangono all’interno dei sopravvissuti e così alla fine dell’intervento si sono chiesti ed hanno chiesto ad Annalisa Cegna quale sarà il futuro del Giorno della memoria quando nessun sopravvissuto sarà ancora in vita. Cegna si è detta ottimista: la memoria non passerà perché rimangono le testimonianze scritte, registrate; nessun evento storico è stato così tanto documentato come la Shoah.